Nel cemento, i primi capitoli di un'autobiografia collettiva.
Alberto Burri, Il Grande Cretto, 1989. Cemento armato di 150 x 35.000 x 280.000 cm. Gibellina (Tp). |
Sono
cuori, le piazze dei nostri paesi. E sono vene le loro vie. Le auto fanno
spesso fatica a passarvi; non sono state fatte per loro. Sono strette e
tortuose; si piegano e si curvano. Non obbediscono a un disegno; non hanno mai
conosciuto la scienza di un urbanista. Sono nate perché a piedi, a dorso
d’asino o al massimo su un carretto, vi passasse la vita.
E a disegnarle, nel
corso di secoli e a volte millenni, è stata la vita. Il corso che taglia il centro? L’hanno creato
di recente, o magari a fine ottocento, ma continua seguire quello che era il
percorso più breve tra le stalle del primo grumo di case e la pozza, scomparsa
chissà quando, dove c’era l’abbeverata. Quella strettoia? A metà seicento, un
soffitto minacciava di crollare e si è dovuto aggiungere un contrafforte al
muro che la sorreggeva. Lo slargo dove si affaccia il negozio del barbiere? Prima
c’era una casa. Abbandonata, ridotta a un rudere, è stata levata di torno. Ai
primi del ‘500 o vent’anni fa. Sì, perché
le vie
restano fedeli per secoli al proprio tracciato eppure mutano; cambiano
assieme alle comunità che innervano. Comunità del cui lavoro sono traccia; della
cui storia sono racconto. Di cui sono, scritta sul territorio e costantemente
aggiornata, l’autobiografia.
E
una comunità viveva a Gibellina. Un nome
dal suono dolce, che conservava la radice gebel,
monte, della lingua degli arabi che dovevano averla fondata o ripopolata. Un
paese della valle del Belice, nella Sicilia occidentale, ma che avrebbe potuto
essere ovunque, lungo lo stivale; arroccato sulla cima di un colle toscano o
appoggiato alle prime pendici delle Alpi, magari tra le vigne di una delle
valli più calde. Un paese, però, noto a ben pochi, fuori dalla Sicilia; il cui
nome molti italiani sentirono pronunciare per la prima volta solo la mattina
del 15 gennaio 1968.
Lo
udirono alla radio, assieme a quello del Belice e alla notizia che, durante la
notte, un terremoto aveva colpito quella zona. Un sisma del sesto grado della
scala Richter che, si sarebbe saputo nei giorni seguenti, aveva causato 350
morti e lasciato senza casa almeno 70.000 persone. Una tragedia di cui
Gibellina, andata completamente distrutta, sarebbe diventata il simbolo. Al
punto che quasi non si riesce a parlarne senza che nella voce s’insinui una nota
di cordoglio e senza limitarsi a usare il passato. Come facciamo, appunto, con
chi non c’è più.
Gibellina,
invece, c’è ancora. Anzi, ce ne sono due. Una è quella tutta nuova, costruita a
una quindicina di chilometri della vecchia, nei pressi dell’autostrada per
Mazara del Vallo; un esperimento urbanistico realizzato sui terreni dei
fratelli Salvo, caporioni democristiani più che in odor di mafia, di cui non
voglio scrivere. Perché ne so troppo poco. Soprattutto, perché mi interessa di
più l’altra, la Gibellina di sempre. Anche lei c’è ancora. E’ la dove è sempre
stata, dove il terremoto l’ha rasa al suolo e dove ce l’hanno restituita la
sensibilità e il genio di Alberto Burri.
Genio?
Non è un’esagerazione. Burri è stato un vero e grande artista; con Fontana, tra
i pochissimi della nostra seconda metà del ‘900 che lascerà una traccia. Vera è
certo stata la sua vocazione: lo sono tutte, quelle che arrivano tardi e
obbligano a lasciare una carriera per cui si è tanto studiato. Burri, nato nel
1915 a Città di Castello, alle soglie dei trent’anni, infatti, era un medico.
Uno specialista in medicina tropicale, per l’esattezza. Si era laureato nel
1940, era stato arruolato, e, diventato ufficiale, era stato spedito nel
deserto. Gli americani lo avevano catturato nel 1943, in Tunisia, quando le
ultime forze dell’Asse in Nord Africa si erano arrese. E la pittura? Per quanto
possa sembrare strano, per un quasi conterraneo di Raffaello, la scopre in
Texas. Nel campo di prigionia per “non collaboratori” di Hereford, dove è
finito, la YMCA mette a disposizione pennelli, colori e tele, e lui comincia a
dipingere. Qualche veduta di un altro deserto, quello che circonda il campo;
qualche natura morta. All’inizio senza troppo impegno, tanto per ingannare il
tempo. Poi, sempre più furiosamente, usando anche della tela di sacco, quando
finisce quelle offerte dalla YMCA, perché non può farne a meno. Perché ha
scoperto d’essere quello che è: un artista.
E
ha il coraggio di continuare a essere quello che è anche quando, nel 1946, torna
in patria. Si trasferisce a Roma e, contro il parere dei familiari, comincia
una nuova vita. Se ha delle incertezze, la sua arte non lo riflette. Forse per
reazione all’uso politico che ne era stato e ne era fatto, più probabilmente
perché non era nelle sue corde, rinuncia presto al realismo. E subito assegna
un ruolo secondario ai mezzi della tradizione pittorica. Già nel 1948, presso
la galleria La Margherita, allestisce
una mostra di sole opere astratte. Anzi, di Bianchi
e Catrami: di quadri realizzati
usando appunto catrame, cemento e altri materiali non convenzionali. Lavora
incessantemente e in solitudine. Solo per un anno, tra il 1950 e il 1951, si
assocerà ad altri. Lo farà partecipando, con Colla e Capogrossi, al Gruppo Origine, che Mario Ballocco
riunisce attorno alla rivista AZ. Sono
artisti molto diversi. Li accomuna solo la volontà di opporsi al degrado in
maniera di tanto astrattismo. Maniera di cui in Burri non vi è traccia. Già nel
1949, torna a usare la tela dei sacchi. Non come supporto, però; come elemento
cardine delle proprie opere. Sono questi, ancora oggi, i suoi lavori più noti. Vale
la pena di osservarli. Sono fatti con pezzi di tela di juta che, dopo essere
stati strappati a dei sacchi, sono stati ricuciti tra loro e quindi incollati
su un supporto colorato, che traspare qua è là. I pezzi di tessuto, a volte dei
veri brandelli, scandiscono il piano in campiture di bruno. Le cuciture
tracciano un disegno; determinano un ritmo. Assieme allo spessore dei sacchi
aggiungono all’opera una nuova dimensione; le danno un volume. Il contrasto tra
il colore del fondo e quello della juta, aggiunge una nota che percepiamo come
più o meno drammatica.
Il
tutto determina una composizione puramente astratta; che non lascia spazio né a
suggestioni figurative né a ovvie geometrizzazioni. Una poesia dell’ineffabile,
fatta di sensazioni ed emozioni, che non va né “capita” né, tanto meno, interpretata.
Che obbedisce, ci avverte Burri, solo a una propria logica; che è realizzata secondo
pure valutazioni formali. Neppure nella
scelta dei materiali sono nascosti messaggi. La tela di sacco come ricordo
della prigionia? Le cuciture come suture di ferite? Sono idee d’altri. Burri, in proposito, dice: “Un materiale vale
l’altro Se non ne ho uno, ne cerco un altro”. Un atteggiamento nei confronti
della propria opera, che lo allontana da
Fautrier e Dubuffet, con cui pure sembra dialogare per la voglia di
sperimentare nuove tecniche, e lo avvicina piuttosto agli espressionisti
astratti che operavano, in quegli anni, dall’altra parte dell’Atlantico; a
Rothko con le sue raffinate stesure e, ancor di più, a Pollock e al suo dripping. Non c’è traccia del gesto,
nell’opera di Burri? Vero. Ma in lui vi è la stessa attenzione verso il procedimento,
il modo di fare, dell’artista americano. Ancora più importante, è la scelta di
entrambi di rinunciare ad un controllo assoluto del proprio lavoro. Pollock,
per quanto sia abile nell’usare i pennelli a quel modo, non può certo guidare ognuna
delle gocce di colore che lascia cadere. Introduce nella propria opera un
elemento di casualità. Lo fa anche Burri, proprio con quei sacchi. E’ frutto
del caso, delle irregolarità del filato grossolano, oltre che del lavoro di
telai e operai, il disegno delle loro trame e dei loro orditi. Un disegno che
Burri non nasconde, ma fa diventare parte, e non tra le meno importanti, della
propria opera. Un atteggiamento, quello di Pollock e Burri che riflette ansia e
incertezze dell’era atomica, secondo alcuni. Di certo, grazie ai sacchi le opere di Burri
non restano pure costruzioni formali,
meri giochi intellettuali, ma si aprono
al mondo e alla sua realtà fisica. E quando l’artista lascia in bella evidenza
le scritte e i marchi che compaiono sulla tela, compiendo un’operazione che anticipa
quelle della Pop Art, quelle stesse opere
diventano testimoni del proprio presente; si fanno documento della storia di
quegli anni.
Intenzione
documentaria che, però, è solo un secondo pensiero. Centrale, invece, anche nei
successivi cicli di Burri, resta l’intervento
del caso; determinante, per l’aspetto finale delle opere, l’effetto delle
trasformazioni chimiche sui materiali che le compongono. E’ cosi per le Combustioni che realizza, a partire
dalla metà degli anni ‘50, con legni carbonizzati e pastiche fatte colare dal
fuoco. E’ così per i Cretti cui comincia a lavorare nel 1973. Immaginate
un campo riarso: la sua superficie rotta da una ragnatela di crepe; le zolle
della sua terra bruciata che si sollevano.
Burri cola, o spalma, uno spessa cappa di colla vinilica e caolino su
una lastra di cellotex. Quando la colla si asciuga, la superficie di questa
cappa si spacca in modo del tutto analogo a quella di quel campo. Ne nascono
opere più scultoree che pittoriche, di
cui l’artista è l’ideatore, ma solo fino a un certo punto l’autore; il cui aspetto finale è dovuto alle
tensioni generate dal vinile che si asciuga almeno quanto alla sua volontà.
Opere che Burri arriva a realizzare anche in dimensioni imponenti. Due, una del 1977 e una del 1978, oggi a
Capodimonte, misurano 5 x 15 m.
Poco
dopo averle completate, Burri fu invitato, come altri artisti italiani, ad
offrire una propria opera alla nuova Gibellina che si stava finendo di
costruire. Un invito che accolse. Andò in Sicilia per studiare come inserire un
proprio lavoro in quel che era stato fatto, ma lì ebbe un’idea diversa. Forse
non gli piacque troppo quel che vide del paese nuovo. Forse, più semplicemente,
fu a Gibellina Vecchia che provò l’emozione piu forte; visitando i cumuli di
macerie che erano tutto quel che restava di quel borgo millenario. Resta che
nel 1981, completò il progetto di quel che vedete: un cretto, proprio come
quelli a cui lavorava in quegli anni, ma realizzato inglobando in uno strato di
calcestruzzo alto un metro e mezzo le rovine della Gibellina di sempre. Un’opera
che Burri avrebbe voluto si estendesse per oltre 100.000 metri quadri, ma che è
già oggi, con i 65.000 metri quadri costruiti
tra 1984 e 1989, l’opera d’arte più grande d’Europa. Un progetto
faraonico? Un opera senza senso? Qualcuno se lo chiede ancora. E’ un
capolavoro, invece. Da tutti i punti di vista. Almeno potenzialmente, anche da
quello economico. E’ già riuscito a mettere Gibellina sulla mappa mondiale
dell’arte; potrebbe attirare tanti visitatori quanto una grande cattedrale.
Discorsi aridi? In fondo, quasi gli unici che abbia senso fare. Per il resto, è
un’opera da sentire, non da argomentare. Un monumento alla memoria di chi è
morto da visitare in silenzio. Una cattedrale a cielo aperto, appunto, dove
lasciarsi invadere, ma ancora serve il silenzio, dal senso del sacro. Un luogo
dove meditare, ma parlando solo con noi stessi, sulla brevità e precarietà della
vita.
E’
tutto questo, Il Grande Cretto, ma è anche altro. Non è solo una grande lastra
tombale. Ci sono quelle crepe larghe due metri su cui possiamo passeggiare; che
sembrano vie perché sono delle vie: quelle di Gibellina, come erano prima che
il terremoto le sconvolgesse. Crepe che negli altri cretti ha prodotto la
chimica, ma che qui Burri ha lasciato disegnare alle generazioni che si sono
succedute tra le case del paese. Generazioni il cui lavoro è stato spazzato via
dal terremoto, ma di cui il Grande Cretto
torna a raccontare la storia. Prima di tutto proprio a chi viveva nella
Gibellina colpita dal sisma. Cosa vorrà dire, per i sopravvissuti, percorrere
le crepe dell’opera di Burri? Si commuoveranno, ritrovandosi nel luogo esatto
in cui sorgeva casa loro. Proveranno una
stretta al cuore, riconoscendo l’anogolo di una palazzina sotto le cui rovine è
scomparso un loro caro.
Sono
passati quasi cinquant’anni, però, da quella notte. Chi allora era bambino,
oggi è genitore o nonno e ha figli e nipoti cui può passeggiare per il Cretto. A cui può mostrare che strada
dovesse fare per andare e tornare da scuola. A cui può indicare, mentre la voce
gli si fa di un nulla più dolce, come certe volte succede anche a chi non è
tanto vecchio, dove fosse il portone da cui stava uscendo nonna, quando la vide
la prima volta: era una sera d’estate, loro erano solo due ragazzini, e lei sorrideva
proprio come, certe volte, sorride ancora. E figli e nipoti, per un istante di
magia, vedranno Gibellina Vecchia così com’era. E racconto dopo racconto,
ricordo dopo ricordo, impareranno a leggere nel crepe del Grande Cretto i primi capitoli di un libro: quello che ora sta a
loro continaure a scrivere.
.
P.S.
Il
Grande Cretto si trova lungo la SS
119 di Gibellina, che collega Alcamo
a Castelvetrano, nel tratto compreso tra Santa Ninfa e Salaparuta.
P.S.
2 Per completare Il Grande Cretto, così come Burri lo aveva progettato, si
dovrebbero realizzarne altri 34.000 metri quadri. Lo si farà nel corso del
2015, grazie fondi europei per 2.400.000 Euro, stanziati in occasione del
centenario della nascita dell’artista. La parte già esistente dell’opera, però,
mostra già un forte degrado. Nessuno ne ha avuto cura fino ad ora e il calcestruzzo
usato nella sua costruzione pare sia di pessima qualità. I restauri sono ancora
in fase di studio. Pare costeranno almeno 1 milione di Euro. Considerando che
il Cretto non ha neppure trent’anni,
una spesa di cui qualcuno dovrebbe essere chiamato a rendere conto.
P.S.
3 Qualcuno ha dato il permesso di erigere delle pale eoliche sulla cresta delle
montagne che dominano Gibellina Vecchia e Il
Grande Cretto. A questo qualcuno, che avrà pure un nome e cognome, andrebbe
perlomeno chiesta qualche spiegazione … .
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