Gli arabismi tra Italiano e Spagnolo e qualche considerazione mediterranea.
Di Schüler, Bozzetto per Cavaliere e Cavallo. Tecnica mista su carta di 30 x 50 cm |
Il
Mediterraneo. Il mare tra le terre, lo snodo attorno a cui si articolano tre
continenti, la culla del mito e delle leggende, è pure, e da sempre, una grande via
di comunicazione.
I greci, che furono tra i primi a navigarlo, non a caso
scelsero anche πόντος (póntos) per dire mare: una parola che, proprio come
sembra, deriva dalla stessa radice indoeuropea che ci ha dato il latino pons e il nostro “ponte”. Un ponte tra
Europa ed Africa come tra Oriente ed Occidente, che è stato attraversato in
tutte le direzioni da genti d’ogni risma, a volte da interi popoli, dalle loro
mercanzie e dalle loro parole.
Parole
che diventano anche arabe, a partire dal VII secolo d. C, quando le genti del
deserto raggiungono le sue sponde. Da quel momento, i contatti tra mondo
cristiano e Islam si fanno sempre più frequenti. Non sono sempre pacifici. Gli Arabi minacciano
di invadere tutta l’Europa e riescono a fondarvi propri stati, in Spagna e
Sicilia. I Cristiani lanciano le Crociate e costituiscono un regno in
Terrasanta. Più che altro, però, arabi e cristiani commerciano. Arrivano a
sviluppare una lingua franca, con cui intendersi, e introducono nelle proprie
lingue termini usati dai dirimpettai per indicare, magari, cose che si trovano
solo presso questi ultimi.
Nelle
lingue romanze, penetrano così centinaia di arabismi. Riguardano la navigazione
e il commercio, ovviamente, ma anche l’agricoltura e, mentre la cultura araba
con il califfato abasside raggiunge il proprio apogeo, soprattutto le scienze e
in particolare la medicina. Arabismi che Italiano e Spagnolo, per esempio, non
hanno solo preso direttamente dagli arabi, ma si sono pure scambiati tra loro.
Vi
è, pero, una differenza tra gli arabismi delle due lingue. Nello spagnolo,
l’articolo arabo al è conservato,
agglutinato al nome, assai più spesso di quanto accada in italiano. Una
particolarità che può essere molto utile a chi si occupa della Storia delle parole.
Sospettiamo
che una parola italiana sia di origine araba? Il modo più semplice di averne
una conferma è vedere se per caso il corrispondente termine spagnolo cominci
con al; se è cosi, possiamo quasi
esser certi che si tratta di un arabismo. (Ma se non è così, non possiamo
escluderlo). Qualche esempio? Cappero. In spagnolo si dice alcaparra e la sua coltivazione dev’essere stata introdotta nella
Penisola Iberica dagli arabi che lo chiamavano (al) kabar. Carciofo? In
spagnolo fa alcachofa e, certo, si
tratta di un altro arabismo: deriva (al) haršûf.
Un ultimo esempio, fuori dal campo ortofrutticolo? Catrame. In spagnolo è alquitrán e all’origine, anche in questo
caso, c’è una parola araba: (al) qatrān.
D’altra
parte, che in questi arabismi italiani manchi l’articolo al, conservato dallo spagnolo, ci deve far pensare che debbano
esserci giunti direttamente dall’arabo o
per tramite di una lingua diversa da quella dei cugini iberici. Tornando
al cappero, per esempio, con qualche ricerca in più scopriamo che l’originale (al) kabar è arrivato nella nostra
lingua attraverso il latino medioevale cappăre(m), che a sua volta deriva dalla parola
greca, suppergiù coeva, kápparis.
In italiano, però, ci sono anche numerosi arabismi
che cominciano proprio per al.
Seguendo il filo di questi ragionamenti, facciamo bene a sospettare che vi siano
giunti attraverso lo spagnolo. Un esempio, in cui siamo sicuri che le cose
siano andate così? Alfiere. Un esempio che vale doppio perché deriva dallo
spagnolo alférez, che è a sua volta l’esito
comune di due distinte parole arabe. Alférez
nel senso di portabandiera, infatti ha alla proprio origine (al) fāris, “il cavaliere”. L’ alférez degli scacchi, che anche in
italiano chiamiamo alfiere, deriva invece da (al) fil, che significa “l’elefante”; nelle scacchiere della sponda
meridionale del Mediterraneo, d’altra parte, ancora oggi questo pezzo ha
proprio la forma di quell’animale.
Non è il solo termine legato agli scacchi che sia
di origine araba. Quando arrocchiamo, per citarne uno, mettiamo il Re dentro
una rukk, una fortezza araba. Lo
stesso nome del gioco, ci è arrivato tramite gli arabi, anche se alla sua
origine c’è una parola persiana; una delle poche, di questa lingua, che
conosciamo tutti. Noi li chiamamo
scacchi, come ci hanno insegnato i provenzali che li chiamavano escac, ma in origine non erano altro
che il gioco dello šāh, o dello Scià come scriviamo di solito, vale a dire “del Re”. Attraverso i provenzali, che l’avevano
imparata dagli arabi, abbiamo appreso anche l’espressione con cui i persiani,
inventori del gioco, concludevano le partite: šāh māt, il Re è morto, che è diventata il nostro “scacco
matto”.
Ma di parole persiane, per solito trasmesseci dai
turchi, nella nostra lingua ce ne sono molte altre. Pigiama, per esempio … .
Meglio che mi fermi, prima di tirare in ballo una
buona parte del nostro vocabolario e, dopo Arabi e Spagnoli, Provenzali e Greci,
Turchi e Persiani, nominare tutti gli
altri popoli che si sono affacciati su quello che i Romani chiamavano Mare nostrum. Non si fermeranno invece
le parole e le idee che, assieme alle persone che le portano con sé, continueranno
ad attraversarlo. Un pensiero che disturba? Se mi leggete è perché qualcuno,
3.000 anni fa o giù di lì, è partito dalla Fenicia, più o meno da dove ora ci
sono il Libano e una parte della Siria, ed ha fatto vela verso Occidente. Con l’alfabeto
nella stiva.
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