Jack Kerouac nei miei ricordi, nei miei sogni e in una mia lettera.
Di Schüler, In galleria. Acrilico su tela preparata di 100 x 80 cm. |
Mi scrivi che stai per cominciare un
viaggio attraverso gli Stati Uniti e subito scoppio d’invidia. Per peggiorare
le cose, mi racconti che Mac, questo pezzo di bisteccone decerebrato, verrà con
te (sì, sono un po’ geloso. E allora?), mentre, forse confondendomi con lui, notoriamente
incapace di individuare i continenti sul mappamondo, neppure mi dici dove
esattamente andrete; solo che farete un coast
to coast.
Perlomeno la tua riservatezza, per
chiamarla così, mi lascia libero di immaginarvi diretti verso San Francisco.
Perché lì? Perché un giorno vorrei
andarci anch'io, partendo come voi da New York e percorrendo quelle infinite strade
del tuo paese che, a dir la verità, ho visto solo al cinema. Rettilinei che
s’allungano verso orizzonti lontanissimi, sotto cieli sconfinati (per favore non
dirmi che si tratta solo di trucchi cinematografici; mi spezzeresti definitivamente
il cuore), e che, da buon europeo, ho sognato di percorrere, a fianco di Sal e
Dean, fin da ragazzino.
Lo so che stai sorridendo, dopo aver
riconosciuto i nomi dei protagonisti di On
the road, Sulla strada.
Sì, continuo a non essere originale,
ma non posso farci nulla se le strade dell’America in cui non sono mai stato ho
iniziato ad amarle lì, nelle pagine di quel meraviglioso racconto di avventure,
amicizia e libertà che mi parve, allora, la più bella delle fiabe.
Non apprezzai appieno, invece, la
scrittura di Kerouac; troppo insolita e, proprio per questo, troppo difficile
per i miei tredici o quattordici anni. Ricordo che provai un certo orgoglio
quando, dopo averne letto il primo centinaio di pagine, riuscii finalmente ad
entrare in sintonia con il romanzo; mi pareva d’aver compiuto un passo avanti verso
il mondo, e la letteratura, dei grandi. Non abbastanza da comprendere davvero On the road, però, come mi è accaduto
con altri libri che ho letto quando ancora non ero maturo. Per quello mi ci è voluta
una rilettura, compiuta un decennio dopo, a conclusione di un periodo di
Kerouac-mania.
Hai fatto due conti, Reader, sei
giunta alla conclusione che allora dovevo essere nell’esercito e scuoti la
testa, pensando al prode guerriero che divora tutto quel che ha scritto padre
della Beat Generation? Mi troveresti supponente, se, per spiegare le
mie contraddizioni, ti citassi Whitman? Hai presente: “Contengo moltitudini?”.
OK, lascio perdere.
Resta che di Kerouac, per un verso o
per l’altro, mi sono piaciuti tutti i romanzi (qualcosa che posso dire di pochi
altri autori) e che mi affascina il suo modo di raccontare. Non mi riferisco al
suo stile, in senso stretto; a quel suo flusso di coscienza sincopato, fatto
d’improvvise accelerazioni e subitanei rallentamenti, spesso messo in relazione
con la musica jazz suonata in quegli anni e tanto elogiato dai critici.
Quel che più amo, in Kerouac, il segreto che ho cercato
invano di carpirgli, è la sua capacità d’essere comico e drammatico, disperato
e pieno di gioia di vivere, all’interno dello stesso romanzo e a volte dentro
la stessa pagina.
Inutile dire che ho anche cercato
d’imitarlo.
Avendo letto che aveva scritto On the road su di un lungo nastro di
telescrivente, per non dover arrestare la propria narrazione neppure per il
tempo necessario a cambiare il foglio nella macchina da scrivere, quando ho
avuta per la prima volta la possibilità di utilizzare un computer, ho pensato
di fare come doveva aver fatto lui.
Mi sono messo sulla scrivania un
portacenere pulito, ho tenuto a portata di mano di che mangiare e bere, e,
battendo sui tasti a tutta velocità, ho cominciato a riversare la mia anima sul
foglio di carta potenzialmente infinito che mi appariva nel monitor.
Il risultato? La mia anima, a parte
le sottolineature rosse del correttore che non sapevo come disinserire, era
parecchio confusa e molto sgrammaticata. Henry Miller, dopo averlo definito
“uno spontaneo prosodista bop”, nella propria prefazione al suo Big Sur, di Jack Kerouac ha scritto: “Ha
violentato a tal punto la nostra immacolata prosa che non potrà più rifarsi una
verginità”. Lo avrebbe potuto dire anche di quello che feci in quella notte,
per una trentina di pagine, ma non certo per farmi un complimento.
No, non bastava avere la carta giusta
ed aver viaggiato in lungo in largo per scrivere romanzi come quello o come The Subterraneans, I Sotterranei.
Avrei potuto saperlo prima. Non c’è
nulla dipiù difficile, nell’arte, che ottenere l’immediatezza; questa può
essere solo il risultato di anni di studi o di uno straordinario talento.
E il talento di Kerouac merita
l’aggettivo di omerico, esattamente come epici dovrebbero essere definiti i
suoi capolavori; anche opere “minori” come Visions
of Cody o Doctor Sax.
Dove, se non nell’epica, e nella più
grande, si possono trovare una simile mescolanza di prosa e poesia e tanta
attenzione alla parola, al suo suono ed al suo ritmo?
Quanto ad On the road, ti ho già scritto che per me, per la mia sensibilità
europea, è una delle pietre su cui si
fonda l’epica del tuo paese; è l’Odissea della
generazione di Kerouac e di quell’America che credo non esista più.
O che forse esiste ancora, ma solo
nei sogni. Anche per voi americani.
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