venerdì 20 marzo 2015

MARC CHAGALL, SULLA CITTA'

Una poesia dipinta. Tra sogno e ricordo, un momento di magia.


Marc Chagall, Sulla città, 1918. Olio su tela di 56 x 45 cm. Galleria Tretyakov, Mosca.


Faceva un gran caldo a Parigi. In città c’era un giovane olandese con i capelli rossi e gli occhi folli. Si chiamava Vincent, dipingeva e faceva la corte ad Agostina Segatori, proprietaria del Tambourin, un ristorante-cabaret al numero 62 del boulevard de Clichy.  

Anche a Londra faceva caldo. Non abbastanza da scoraggiare sua maestà, la regina Vittoria, dal posare la prima pietra dell’Imperial Institute, destinato, con le sue collezioni, a mostrare ai cittadini della capitale le meraviglie delle colonie. E a Roma? Sicuro che faceva caldo anche lì. Facile immaginare che se ne lamentasse Umberto I, per grazia di Dio e volontà della Nazione, Re d’Italia, mentre con la propria firma sanzionava e promulgava la legge 4644, fondamentale provvedimento il cui articolo uno recitava: “Il numero dei cavalli stalloni nei Depositi governativi sarà portato a non meno di 800 in un periodo di otto anni, a cominciare dal 1° luglio 1888”.  Forse faceva caldo anche nella mia valle, ma al grande castagno, che da almeno due secoli se ne stava sulle prime pendici del monte, non credo abbia dato fastidio. Insomma, era una giornata d’estate qualunque. Dappertutto tranne che a Vitebsk. Dove si trova? Oggi in Bielorussia, non lontano da Russia e Lettonia. Allora, era semplicemente parte dell’Impero dello Zar. Un confine, però, passava da lì anche a quei tempi: quello orientale della zona dell’impero in cui dal 1791, per graziosa concessione di Caterina II, Autocrate di tutte le Russie, era consentito risiedere agli ebrei.  Un’area di cui Vitebsk era una delle piccole capitali. Aveva quasi settantamila abitanti, infatti, per la metà ebrei ortodossi, e nelle sue strade si parlava più jiddish che russo. Una tranquilla città di provincia? Di solito sì. Nella zona speciale di residenza, gli ebrei, sono però sempre una minoranza. Abitano villaggi o piccole cittadine chiamate shtetl (del tedesco dialettale Städtel) e hanno rapporti complessi con la maggioranza cristiana che vive nei dintorni. A volte buoni, più spesso di semplice reciproca tolleranza. Quando i tempi si fanno difficili, per una siccità o un’alluvione, per un’epidemia o per una nuova tassa, però, i cristiani hanno pur bisogno di prendersela con qualcuno e da quelle parti non ci sono che gli ebrei. Sono diversi, quindi colpevoli. E non importa quale sia la colpa. Sono colpevoli e quindi vanno puniti. Anzi, sterminati.  I contadini si fanno coraggio, magari bevono per farselo, prendono i forconi, invadono lo shtetl più vicino, ne bruciano le botteghe e le case e ne ammazzano gli abitanti. Non è cosa di tutti i giorni, ma accade abbastanza spesso da avere un nome: pogrom. E a Liozna, uno shtetl alle porte di Vitebsk, quel 7 luglio del 1887 è in corso un pogrom, con i cosacchi che, dopo aver dato alle fiamme la sinagoga, percorrono le vie delle zone ebraiche prendendo a sciabolate tutti quelli che incontrano.
Quelli sono il posto e il momento in cui a Moishe Segal, per l’anagrafe russo Mark Zacharovič Šagalov, capita di venire al mondo. “Io sono nato morto”, dirà poi, quando sarà diventato March Chagall, uno dei più grandi maestri della pittura del ventesimo secolo. E solo il primo dei nove figli che avranno Feige e suo marito Zakhar. Lui lavora per un mercante di aringhe, trasporta barili di pesce per venti rubli il mese. Non sono poveri, il suo stipendio è quasi il doppio di quello medio; solo quasi. Ovviamente sono ebrei; chassidici, per la precisione, come quasi tutti quelli di Vitebsk. Per loro, la fede non è fatta solo di studio e preghiera, ma accompagna ogni momento della vita e si esprime anche nella gioia delle danze e dei canti. E Zakhar era un uomo di fede. “Giorno dopo giorno, inverno ed estate, mio padre si alzava alle sei per andare in Sinagoga a pregare per questo o quel morto”. Così lo presenta Chagall, in La mia vita, che scrisse a Mosca e in jiddish nei primi anni venti. In un altro scritto, posteriore di un quarto di secolo, è sempre lui a dirci perché sia tanto importante ricordare la società e cultura della sua città natale, se vogliamo comprendere la sua arte: “Non vivo più là, ma non ho un solo quadro che non vi s'ispiri o la rifletta”.
Una città che è stata quasi completamente distrutta dalla Seconda Guerra Mondiale. Una società scomparsa; ridotta letteralmente in fumo, nei forni crematoi. Quando termino l’occupazione nazista, non erano più di un centinaio gli ebrei rimasti nella zona di Vitebsk. Un mondo chassidico, di cui resta solo la memoria. Nei dipinti di Chagall, certo, e nelle opere di Isaac Bashevis Singer, che ne è stato l’altro grande cantore. Tele e racconti che a volte paiono illustrarsi a vicenda; in cui sempre spira la stessa poesia.
E poesia dipinta è questo quadro. E’ tra i più celebri di Chagall, ma forse non è davvero un suo capolavoro. Personalmente preferisco le sue opere più mature, che paiono esplodere di colore e dove le pennellate acquisiscono un valore espressivo che qui non hanno ancora. Sulla città, però, ha un carattere tutto suo e di poche altre opere che l’artista realizzò nello stesso periodo. E’ un quadro fatto di speranza, prima che di memoria; che guarda al futuro prima che al passato. E’ del 1918, e Vitebsk, quella Vitebsk, con le sue case di legno, c’è ancora: nella realtà, come lì sulla tela. C’è appena stata la Rivoluzione e Chagall è un pittore già abbastanza famoso e tanto moderno da poterne essere considerato un “braccio estetico”. Gli è stato addirittura offerto di diventare “commissario artistico” di tutta la Russia. Ha accettato di esserlo solo per la provincia di Vitebsk, vuole avere il tempo di continuare a dipingere. E’ sereno, ad ogni modo. Basta osservare la delicatezza di quei colori, la pacatezza di quelle stesure, per capirlo. A Vitebsk ha appena fondato un’accademia. Soprattutto, ha sposato Bella Rosenfeld, il suo grande amore. E’ lei che nel quadro tiene tra le braccia. Sono loro due, quelli che stanno volando nel cielo della città, un po’ nuotando nell’aria, un po’ lasciandosi andare al vento dei sogni. E’ solo per lei, per sposarla, che è tornato da Parigi, nel 1914. Un altro momento sbagliato. Mentre stava ancora tentando di convincere i futuri suoceri, ricchi commercianti di gioielli, dei propri buoni propositi e della solidità della posizione che aveva raggiunto, era scoppiata la Prima Guerra Mondiale e non era più potuto ripartire.
Da Parigi, ad ogni modo, qualcosa si era portato dietro, e lo possiamo vediamo in tele come questa. Solo qualcosa, però. Sulle rive della Senna, contrariamente a molti, non era arrivato con un bagaglio fatto solo di speranze. In patria, godeva già di una certa reputazione. Ed era tutt’altro che un provinciale. Le basi del mestiere, di quella sua professione tanto improbabile per il figlio di un pio chassidico, le aveva sì apprese a Vitebsk, nello studio di Yehuda Pen, unico pittore della città, ma poi aveva frequentato l’Accademia di Belle Arti di San Pietroburgo, e aveva potuto vedere opere delle più diverse scuole. A Parigi, dunque, era andato solo per dare un tocco finale alla propria formazione, ma avendo già trovato le proprie forme e i propri colori. Soprattutto avendo già una propria poetica: quella che sarebbe rimasta sua per tutta la vita. E anche lì, nella capitale artistica del mondo d’allora, aveva continuato imperterrito a dipingere scene della vita di Vitebsk; a illustrare leggende e racconti della tradizione chassidica. Aveva conosciuto i protagonisti delle avanguardie, li aveva visti in azione, ma ne era rimasto influenzato solo superficialmente. Aveva una propria pittura, detto altrimenti, e non era disposto a sacrificarla sull’altare di questo o quello degli “ismi”. Sembra quasi che stia parlando di Modigliani? E, infatti, l’altro grande “isolato” della scena parigina era diventato suo amico. Per qualche tempo avevano addirittura vissuto nella stessa comune d’artisti, a Montparnasse. Gli altri amici parigini di Chagall? Apollinaire, soprattutto: il primo a lodare il suo “primitivismo”; l’energia e l’immediatezza della sua pittura. Poi i due cubisti: Fernand Léger e Robert Delanuay.  Cubisti eretici, però. Specie il secondo, che usava le forme del cubismo, ma solo come ordito su cui tessere le proprie armonie di colori.
Amicizie di cui in Sulla città troviamo tracce.  Nella maniera in cui Chagall ha rappresentato le case di Vitebsk, riconosciamo una certa influenza di Delanuay. Sono più vicini a Léger, invece, i modi in cui si è ritratto ed ha ritratto Bella. Anche i loro corpi seguono le forme di un generico cubismo.

E’ però tutto quello che Chagall può prendere da un movimento che con il suo positivismo di fondo, con la sua attenzione al reale, è distantissimo dalla sua pittura di sogni e visioni. E’ anche tutto quel che mi pare opportuno dire del quadro. Non si raccontano le poesie. Vi lascio a contemplare quel cielo, lattiginoso com’è quello della grande pianura quando è gravido di neve. Vi lascio a guardare le case di quella Vitebsk che non c’è più. Ognuno di noi, specie se non si è più giovani, se ne porta dentro una. Un posto speciale, che magari non è stato distrutto, ma che è comunque tanto cambiato da essere divento altro; in cui si può andare di nuovo, ma cui non si può davvero ritornare. Voi avrete il vostro; io ho la mia valle. Anche il grande castagno, là sulle prime pendici del monte, è andato in fumo: qualche anno fa l’ha colpito un fulmine e continua a stagliarsi solo nel cielo, sempre azzurro, perennemente estivo, della mia memoria. Soprattutto, vi lascio ad ammirare il volo di Bella e di Marc; anzi, Moishe.  State sorridendo? Spero di sì; spero stiate ricordando quei momenti, quegli istanti di magia, in cui avete volato abbracciati a qualcuno. Spero ci siano stati; spero che vi siano capitati e che vi capitino ancora.

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