"Per
quanto complessi gli eventi, per quanto complicati i tempi, non
possiamo limitarci a registrarli. Dobbiamo dare loro, e non saremmo
umani altrimenti, se non un preciso significato, perlomeno un senso".
Una tela di cinque metri per due,
grossolana, né sbiancata né altrimenti preparata, stesa sul pavimento.
L'artista la percorre. La attraversa e riattraversa, con un grosso
pennello in mano, o forse addirittura una scopa, da cui colano gocce e
rivoli di colore. Di nero. Di bianco. Tracce del viaggio che il pittore
compie dentro il proprio quadro; fedeli registrazioni dei movimenti che
quell'opera stanno portando a compimento. Gesti che rispondono ad un
piano? O sono piuttosto, come i segni che ne risultano, espressioni del caos; fortuiti come, appunto, è il gocciolio da un rubinetto mal chiuso? Né una né l'altra cosa, perché e il 1950 e quell'artista è Jackson Pollock,
all'apice delle proprie capacità espressive. Sono tre anni che dipinge a
quel modo, ed è perfettamente padrone di quella tecnica; lo afferma con
orgoglio anche in alcune interviste: non c'è nulla che non abbia espressamente voluto, su quella tela.
Non c'è neppure nulla di pianificato però. Pollock dipinge come suonano
il pianoforte o la tromba i musicisti jazz che tanto ama. Improvvisa.
Segue le necessità interne del dipinto che sta componendo. Si affida a
tutto se stesso. Alla ragione e a quella intelligenza, indefinibile, ma
tanto umana da individuarci come specie, che fa trovare alle dita di Charlie Parker,
mentre si muovono su e giù per a tastiera del sax, la nota giusta. A
quel punto, in quel momento, inevitabile. Brani che nascono dal dialogo
tra il musicista e la propria musica. Anzi, musica, che l'abilità del
suonatore fa scaturire dallo strumento, ma che dialoga, prima di tutto,
con se stessa.E questo, pittura che si è realizzata in una sincopata, agiata, a volte rabbiosa, conversazione con la pittura, è il risultato del lavoro di Pollock. Inutile cercarvi significati o metafore: non ve ne sono. Una quindicina di anni dopo, Susan Sontag avrebbe scritto il breve saggio “Against intepretation”; pagine imprescindibili per capire quanto siano spesso superflue le costruzioni intellettuali dei critici. Quanto cadano corte le categorizzazioni, le dotte disquisizioni su forma e contenuto, davanti al compito di spiegare il trascendente (io preferisco pensare al più profondamente e propriamente umano) che è quel che rende arte l'arte. Un concetto non troppo diverso da quello che Wittgestein espresse nella celebre settima proposizione del proprio “Tractatus Logico-Philosophicus”, che, nella traduzione italiana più corrente, suona “Su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere”.
Che dire, dunque, di Autumn Rhythn (Number 30), come ha finito per chiamarsi quel dipinto di Pollock? Serve, per aiutarci a comprenderlo, sapere che la tecnica con cui è stato realizzato, e ho cercato di descrivervi, ha preso il nome di “dripping”? Che quel modo di dipingere, lasciando sulla tela la traccia dei propri gesti, ha terminato per identificare una scuola, detta dell'Action Painting? Non credo. Come neppure serve davvero sapere che oggi Pollock è considerato uno dei grandissimi dell'Espressionismo Astratto; che, anzi, è diventato una popolarissima icona della cultura americana: una specie di Hemingway della pittura.
E di fronte, ad Autumn Rhythn (Number 30), dovremmo metterci. Una buona riproduzione ce ne può dare un idea, ma lo spessore e la consistenza di quelle colature di smalto le possiamo vedere solo davanti all'originale, appeso ad una parete del Moma a New York. Importante la materia, di questo quadro, come per le Ninfee di Monet all'Orangerie, e come in queste importante la dimensione fisica: opere in cui, parafrasando McLuhan, (anche) i metri quadri sono il messaggio.
Pittura che urla di essere toccata. Mare di segni in cui viene d'istinto tuffarsi; in cui si vorrebbe entrare fino a farne parte. Tempesta di tracce in cui potremmo affogare; che ci impone di allontanarci per accoglierla tutta in uno sguardo. Lo facciamo, ma il frastuono visivo non si placa. Serve qualche tempo prima che riusciamo a distinguervi delle aggregazioni, quasi delle visualizzazioni, sul rumore di fondo, dei “punti sonori” utilizzati, in quegli anni, dai compositori di musica classica, seriale e non. Riconosciamo poi dei ritmi: quelli presenti nel titolo dell'opera, scanditi dalle tracce bianche e nere più larghe. Ritmi che Pollock ha “sentito” mentre dipingeva e ha trasferito sulla tela. Forse ritmi tutti nostri, che solo noi vediamo.
Stiamo peccando? Stiamo interpretando, nonostante gli avvertimenti di Sontag? Stiamo completando quell'esperienza sempre unica, individuale, che è l'arte. Stiamo facendo nostra, declinandola secondo la nostra personale sensibilità, l'opera di Pollock. Stiamo seguendo la nostra natura. Per quanto complessi gli eventi, per quanto complicati i tempi, non possiamo limitarci a registrarli. Dobbiamo dare loro, e non saremmo umani altrimenti, se non un preciso significato, perlomeno un senso.
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