Tra i pochissimi lussi che mi concedo c’è, di tanto in
tanto, specie in questa stagione, quello di un bicchierino di Porto che
bevo, accompagnandolo con qualche noce, davanti al caminetto. Con un bel
libro d’arte in grembo, gioco a fare l’esteta imitando l’esteta vero,
un anziano signore padovano, da cui ho preso questa per altro
inglesissima abitudine. Un paio di settimane fa,
per tenermi compagnia, mentre la mia matematica moglie triturava numeri
come suo solito, ho tirato fuori dalla mia libreria il grosso volume
su Felice Casorati che mi donò, il Natale di alcuni anni or sono, un’amica di famiglia.
Una scelta tranquilla, la mia, avvenuta dopo un momento
d’indecisione - ero partito con l’idea di contemplare il “Cristo
Portacroce” di Bosch - che è stata il riflesso della necessità di
rilassarmi dopo una giornata lavorativa insoddisfacente, di molto
impegno e pochi frutti.
E pittore di serenità immensa, adattissimo quindi al
mio stato d’animo, ricordavo essere Casorati: chi meglio di lui per
abbandonare per un poco questo mondo e le sue preoccupazioni?
Controllato nella composizione, rigorosissimo
nella distribuzione dei volumi e nella resa essenziale delle forme, il
Casorati dei primissimi anni venti, il mio preferito, offre agli occhi
dello spettatore uno spazio della ragione da cui il dramma - che tanta
pittura anche buona trasforma in melodramma - è escluso; in
cui, per usare le sue parole di quegli anni, egli afferma “la dolcezza
di fissare sulla tela le anime estatiche e ferme, le cose immobili e
mute, gli sguardi lunghi, i pensieri profondi e limpidi, la vita di
gioia e non di vertigine, la vita di dolore e non di affanno”.
Permangono, in quel Casorati, gli echi del simbolismo ed il decorativismo della secessione viennese,
che molto lo avevano colpito negli anni precedenti la prima guerra
mondiale, ma ricondotti dentro a uno spazio pittorico, creazione logica e
matematica oltre che formale, che davvero, come dicono gli informati, pare
discendere da Piero e dalla sua ricerche. Se si deve cercare oltralpe,
andare da Cezanne, per ritrovare in epoca moderna una simile attenzione
ai volumi, al loro valore e ai loro rapporti, è italianissimo, toscano,
l’amore per la linea che lo accomuna, e questa è cosa mia, quindi
criticabilissima, a Modigliani, come pure a Modigliani mi fa pensare il
suo trattamento raffinatissimo della superficie pittorica con quei suoi colori stesi in strati sottili, con pennellate appena appoggiate, toccate.
Volevo ammirare, quella sera, uno dei più famosi quadri
del Casorati di quel periodo, e, per me, uno dei più bei ritratti della
storia della nostra pittura: quello di Silvana Cenni.
Un’opera maestra, tutta fatta d’equilibri, a cominciare
da quello cromatico di una tavolozza controllatissima, in cui lo
spirito di Piero aleggia potente - banale indicare il paesaggio sullo
sfondo e la sua relazione con la figura di Silvana - ma che pure, al mio
occhio eretico, ricorda Hopper, i suoi silenzi e le sue attese. Lo
stesso tempo rarefatto; atemporale, se si può dire così del tempo.
Il “Ritratto di Silvana Cenni” è un quadro del 1923,
l’anno in cui Casorati, che viveva a Torino ed era diventato amico di
Gobetti ed entrato nel gruppo “Rivoluzione Liberale”, fu arrestato e convinto dal regime, con alcuni giorni di carcere, a lasciar perdere la politica.
Di qualche anno prima, per arrivare ad occuparci di politica, è il quadro con cui ho invece finito per bere il mio porto e mangiare le mie noci: “L’attesa”, dipinto tra il ’18 ed il ’19, dopo che il pittore era stato congedato alla fine della Grande Guerra.
Mi è parso un altro ritratto, quest’opera che
conoscevo, ma che non avevo mai guardato. Cercatene un riproduzione in
rete; ditemi se non pare anche a voi una rappresentazione dell’Italia.
Forse di quella di allora; sicuramente di quella di oggi.
Sì, certo, c’è Piero ancora lì dentro, e c’è il ricordo di Klimt, e Cezanne nella natura morta su quel tavolo.
Soprattutto in quel quadro c’è il tempo: la sensazione che
quell’attesa, potrebbe durare un istante come pure un'eternità. Tutto è
pronto, tutto è in ordine, eppure nulla accade.
Non c’è vera tensione, se non quella comunicata da quel
punto di vista così alto, che pare faccia incombere sulla figura le
piastrelle del pavimento, e dal riquadro scuro di quella porta aperta,
là in cima a tutto, dalla quale qualcuno potrebbe entrare in qualunque
momento.
Non c’è dramma, tutto potrebbe andare normalmente, ma
neppure c’è vera serenità. Non può concedersi un vero riposo l’elegante
figura della protagonista. Sta seduta, con gli occhi chiusi e il capo
appoggiato ad una spalla, ma con la schiena eretta.
Sa che arriveranno; che il silenzio finirà e quell’ordine fatto di pochissimo, quasi di nulla, non sarà più.
Ti piace l'arte?
Ti piace l'arte?
Altri articoli e commenti nelle Lettere al Lettore di "LETTERE DALLA FINE DEL MONDO"
Nessun commento:
Posta un commento