Bellissima. Forse un po' freddina, e non solo perché fatta di arenaria, ma bellissima.
Maestro di Naumburg, Uta von Ballenstedt (1250 ca.) Particolare del volto. |
Il mio amico Umberto
Eco (lui non mi conosce, ma io ho comprato, e letto, proprio tutti i suoi libri),
se dovesse uscire a cena con una donna, tra quelle raffigurate nella storia
dell’Arte, sceglierebbe lei.
Prima, però, dovrebbe fare i conti con me. Dico:
sono innamorato di lei da sempre; se non altro da quando, e non avrò avuto più
di quattordici anni, l’ho vista per la prima volta. Perché? Perché sono
maschio, ero adolescente e lei era, come sempre resterà, bellissima. Un po’
freddina, forse, e non solo perché è fatta d’arenaria, ma bellissima. Lei, Uta
von Ballenstedt. O meglio la statua che la rappresenta, e che non è per niente
detto che le somigli. L’Uta reale, di carne e ossa, infatti, era nata nell’anno
1000, e delle sue fattezze doveva essersi perso il ricordo nel 1249, quando il
vescovo di Naumburg, una cittadina della Sassonia, inserì il suo nome, e quello
di suo marito, nell’elenco dei principali benefattori laici della cattedrale: dodici
fondatori che l’ecclesiastico volle far immortalare in altrettante grandi statue
che, seguendo modelli francesi, furono collocate accanto ai supporti del coro
occidentale dell’edificio sacro.
Anche se ignoriamo
quale fosse il suo aspetto, ad ogni modo, della vera Uta e della sua storia
sappiamo qualcosa. Non solo quando nacque,
ma anche dove (nel castello di Ballenstedt, appunto, un’altra località della
Sassonia) e da chi: suo padre era il conte Adalberto e sua madre era Hidda, a
sua volta figlia di Odo I, margravio della Lusazia, la grande marca che segnava
il confine orientale dell’Impero. Ebbe anche un fratello celebre; Esico di
Ballenstedt, che sposando Matilda, sorella dell’Imperatrice Gisella, fondò la
dinastia degli Ascanidi, che avrebbe poi governato su vasti territori tra mondo
tedesco e slavo. In quanto ad Uta, le cronache dicono che si sposò assai tardi,
quando aveva già ventisei anni. Un matrimonio per ragioni puramente politiche
che la unì al vecchio Eccardo II, ormai quarantunenne ma destinato a diventare
margravio di Meissen. Ancora oggi, questa cittadina sulle rive dell’Elba è
dominata dal castello di Albrechtsburg. Le mura che vediamo, sono dovute a un
rifacimento quattrocentesco, ma fu lì che Uta visse accanto ad Eccardo fino
alla propria morte, avvenuta per una non meglio precisata epidemia nel 1046. Vicende
che, a cominciare dai nomi dei loro protagonisti, sanno tanto di Medioevo?
Certo. E questo sapore aumenta se
aggiungiamo che Uta, accusata di stregoneria con grave imbarazzo del pio
Eccardo, a un certo punto del suo ventennio da margravia, rischiò anche di
finire sul rogo.
Nonostante tutto,
però, il Medioevo in cui visse non era già più quello dei secoli bui in cui la
civiltà europea aveva rischiato di estinguersi. Malgrado pestilenze, guerre e
carestie, infatti, la popolazione del continente era tornata ad aumentare. Il
dissodamento di nuove terre e l’introduzione di nuove tecniche di coltivazione
garantiva una produzione alimentare in genere sufficiente; anzi, tanto
abbondante da liberare dal lavoro nei campi un numero sempre maggiore di
europei. Uomini e donne che potevano dedicarsi ad altre attività e,
soprattutto, tornavano a popolare le città che, nei secoli successivi alla
caduta dell’Impero Romano d’Occidente, erano pressoché scomparse. Quello che
usualmente chiamiamo Rinascimento, insomma, era ancora lontanissimo, ma, a
cavallo dell’anno Mille la rinascita dell’Europa era già avviata. La
dimostrazione più lampante che fosse così? Proprio l’inizio dei lavori di
costruzione delle cattedrali: opere che trovavano la propria ragione d’essere
solo in un contesto urbano e per la cui realizzazione implicava la possibilità
di riunire, alloggiare e alimentare, tutta una schiera di artigiani
specializzati; anzi, di maestri.
Maestri come quello
cui dobbiamo la statua di Uta? Non ancora. I suoi progenitori, piuttosto, lungo
quella linea di evoluzione economico-sociale e culturale, oltre che artistica,
che nell’arco di due secoli avrebbe prodotto la civiltà, prima che l’uomo, in
grado di realizzare una simile opera.
Uomo, di cui peraltro sappiamo pochissimo. Non ne conosciamo neppure il nome.
La storia dell’Arte, come fa quando deve arrendersi davanti alla mancanza di
documenti scritti, prende spunto da queste statue, il suo capolavoro, per
indicarlo come il Maestro di Naumburg.
Per il resto, ci sono solo teorie e a volte contrastanti. Si pensa sia
nato poco dopo il 1200, forse in Germania, ma più probabilmente nel Nord della
Francia, dove si ritiene abbia appreso il mestiere. Non ci sono prove certe, ma si crede fosse
anche architetto e che a lui si debba l’intero progetto del coro occidentale. Era
sicuramente aggiornatissimo; tanto da far pensare che debba aver lavorato in
alcuni dei più importanti cantieri dell’età aurea del Gotico francese.
Probabilmente fu attivo a Noyon, Amiens,
Reims e, forse, Chartes, negli anni a cavallo del 1225. Poco dopo, si ritiene
abbia partecipato anche alla costruzione delle cattedrali di Strasburgo e Metz.
Le prime opere che gli sono state attribuite con certezza, o quasi, sono le statue del tramezzo (o jubé, come si
preferisce dire) della cattedrale di Magonza, oggi ridotte in frammenti. Sempre
opera sua, e forse subito precedente le statue di Naumburg, è l’altorilievo con San Martino nell’atto di tagliare in due il proprio mantello (un
vero capolavoro per pathos, vivacità ed equilibrio della composizione)
ritrovato negli anni 30 del Novecento
nella chiesa parrocchiale di Bassenheim, presso Coblenza. Non ci sono prove,
invece, se non di un legame indiretto, di una partecipazione allo stesso clima culturale,
di un suo intervento nella realizzazione della cattedrale di Bamberga, e, in
particolare, della celebre statua equestre che ne orna il coro. Sicuro, o
quasi, è invece il coinvolgimento della sua bottega, o di qualcuno che era stato suo allievo, nelle sette grandi
statue della cattedrale di Meissen. Sono
solo di poco posteriori al ciclo di
Naumburg, ma a quel punto il Maestro sarebbe potuto essersene già andato.
Una storia piena di
lacune, ma che comunque non si può riassumere facendo del Maestro di Naumburg
una specie di traduttore tedesco di mode francesi. Certo, è perfettamente
francese (lo stesso dell’angelo dell’Annunciazione nella cattedrale di Reims,
per esempio) il sorriso sul volto di un’altra delle statue dei “fondatori”:
quella di Regelinda, moglie polacca di Ermanno I di Meissen. Vi è, però, nelle
opere del nostro Maestro, qualcosa di nuovo rispetto agli esempi dell’Ile de
France o della Piccardia. Basta tornare a Uta, per comprenderlo; distogliere
gli occhi dal suo viso per osservare la sua postura, il suo mantello e, magari,
quell’incredibile brano scultoreo che è la sua mano sinistra. Una mano
perfetta, nella sua anatomia, come perfettamente realistico è ognuno dei
particolari che formano l’opera. Intendiamoci, il ritorno alla realtà, è
proprio di tutta l’arte gotica. La diffusione degli ordini mendicanti, con la
loro attenzione all’umanità della figura di Cristo e della sua vicenda terrena,
si unisce al bisogno di ricordare i Vangeli alle folle urbane che vivono
all’ombra delle nuove cattedrali per spingere verso un maggior realismo dell’arte
religiosa. Non solo. La vita dei nobili forse non era ancora quella,
raffinatissima, che centocinquanta anni dopo, nella fase più tarda della
cultura gotica, sarà miniata dai fratelli Limbourg, ma certo era qualcosa di
più di un passaggio attraverso una valle di lacrime: meritava d’essere rappresentata,
come meritavano d’essere ricordate le vicende di artigiani e mercanti che erano
già quelli che Boccaccio avrebbe descritto nelle sue novelle. A quest’attenzione
al mondo, alla realtà, nel Gotico delle
grandi cattedrali francesi, si accompagna però sempre una notevole idealizzazione:
le sue figure si allungano, e spesso assumono una posizione “a esse”
considerata particolarmente elegante, mentre i panneggi dei loro abiti sono
sovente insistiti, (a pieghe bagnate, si è soliti definirli) e rispondono più a
esigenze decorative o “narrative” che di resa naturalistica.
Maestro di Naumburg, Eccardo II di Meissen e Uta von Ballenstedt. (ca. 1250) Statue a grandezza naturale in arenaria dipinta. Coro occidentale della cattedrale. Naumburg, Germania. |
Idealizzazioni, stilizzazioni,
che il Maestro di Naumburg non fa proprie. Il suo è un realismo che fa ben
pochi compromessi; quello di un artista che mette in posa i propri modelli, ma
poi li ritrae come sono. Per gli uomini e le donne che sono. Basta guardare Eccardo (o Eckehard), che se
ne sta lì accanto alla moglie: reggerà uno spadone, e avrà uno scudo appeso al
fianco, ma con quel suo volto rotondo, con quel suo doppio mento, tutto appare
fuorché guerresco. Un realismo che si sofferma sui particolari, come l’anello
che Uta porta al dito o la corona che le cinge il capo, e che doveva addirittura essere iper-realismo
quando le statue conservavano, in tutta
la sua vivezza, la colorazione di cui oggi restano solo tracce (ammesso che si
tratti di quella originale). Quest’attenzione ai dettagli, e questa capacità di
riprodurli, non sono, tuttavia, quelle di un mero virtuoso; di un orefice della
pietra. Il Maestro di Naumburg è uno scultore, e come tale pensa le proprie
opere, prima di tutto, come combinazioni di volumi. Osserviamo il mantello di
Uta. Non sono inutilmente decorative le
pieghe con cui cade; sono quelle, perfettamente naturali, per nulla “bagnate” o
“gotiche”, che ci si può aspettare formi
un tessuto che s’intuisce pesante. Osserviamo ora il braccio con cui Uta si serra quel mantello. Quanto si è scritto,
su questo gesto. Certamente riprende quello del braccio che Eccardo tiene all’altezza
della propria cintola. Forse simboleggia davvero la modestia di Uta; il suo
essere moglie fedele e devota. Ancor più certamente è un gesto che ha precise ragioni
compositive: necessario per rompere il
monotono ritmo verticale di quelle pieghe; fondamentale per dare al mantello un
volume più interessante. E’ un braccio
che “deve” stare così, come per simili motivi “da scultore”, se mi consentite
un paragone tanto distante da Uta, devono starsene conserte, anche loro coperte
da un mantello, le braccia del Balzac
scolpito da Rodin.
Attenzione all’uomo e
all’umano, voglia d’indagare la realtà o perlomeno il suo aspetto, capacità di
concepire la propria opera come composizione tridimensionale, a tutto tondo, e
conoscenza dell’anatomia: ma allora,
viene da dirsi, il Maestro di Naumburg è già uno scultore rinascimentale. No, solo
quasi. E questo anche facendo nostre le teorie di Konrad Burdach che, nel suo Dal Medioevo alla Riforma, vede nel
Rinascimento la prosecuzione naturale e senza cesure dell’età gotica. Mancano,
nel nostro Maestro, la tensione “ideale” e la ricerca umanistica, che saranno
proprie dei rinascimentali. Gli mancano anche perché non ha modo di conoscere, se
non di seconda o terza mano, magari attraverso l’opera di scultori provenienti
dal Midi, gli esempi dell’arte
classica con cui dovrebbe confrontarsi. E’ quello che invece fa qualcuno, circa
un quarto di secolo più giovane di lui, che ha la fortuna di cominciare a
lavorare un migliaio di chilometri a sud della Sassonia, in quell'Italia Meridionale cui era allora dato il generico nome di Apulia. Qualcuno
che ha modo di vedere antichità greche e romane e, allo stesso tempo, di
imparare il mestiere dai colleghi del Maestro di Naumburg chiamati laggiù dalla
sensibilità illuminata di Federico II, non a caso tra i principali finanziatori
della cattedrale di Bamberga. Parlo di
Nicola Pisano. Un genio, certo, ma che pure ha avuto dei padri e tra loro anche
alcuni d’Oltralpe. Piccardi, borgognoni, renani, sassoni o svevi? Semplicemente, preferisco pensare, altri
europei come lui. E che come lui, pietra dopo pietra, idea dopo idea, stavano costruendo l’Europa.
P.S. Pare che Walt
Disney, nel 1937, abbia dato il volto di Uta alla crudelissima regina Grimilde,
nel film Biancaneve e i sette nani.
Ne sono indignato.
P.S. 2 I nazisti
fecero di Uta un simbolo della bellezza e della dignità della donna germanica.
Sono sicuro, conoscendola, che se ne sia indignata: con certa plebaglia non
avrebbe mai voluto avere a che fare.
P.S. 3 Gli stessi
nazisti fecero di Regelinda il simbolo della donna slava, troppo poco
intelligente per fare altro che sorridere. Detto dell’origine francese di
quella sua espressione, resta che lei ha continuato a sorridere: di compassione
verso chi sapeva tanto poco di storia dell’Arte.
Salve, sto scrivendo la tesi su Uta e vorrei sapere se può gentilmente dirmi le fonti esatte delle informazioni che ha esposto. Grazie :)
RispondiEliminaMi dispiace doverti deludere, ma dopo tanto tempo proprio non ricordo quali testi, in particolare, abbia consultato. Ho trovato le notizie qua e là nei vari manuali che ho in casa; gli stessi a cui credo tu possa avere facilmente accesso. Non conosco, invece, e anche se ci saranno, delle monografie su Uta. Auguri per la tesi e scusa ancora se ho potuto essrti così poco di aiuto.
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