giovedì 18 giugno 2015

MAESTRO DI NAUMBURG, UTA VON BALLENSTEDT

Bellissima. Forse un po' freddina, e non solo perché fatta di  arenaria, ma bellissima.

Maestro di Naumburg, Uta von Ballenstedt (1250 ca.)
Particolare del volto.
Il mio amico Umberto Eco (lui non mi conosce, ma io ho comprato, e letto, proprio tutti i suoi libri), se dovesse uscire a cena con una donna, tra quelle raffigurate nella storia dell’Arte, sceglierebbe lei. 


Prima, però, dovrebbe fare i conti con me. Dico: sono innamorato di lei da sempre; se non altro da quando, e non avrò avuto più di quattordici anni, l’ho vista per la prima volta. Perché? Perché sono maschio, ero adolescente e lei era, come sempre resterà, bellissima. Un po’ freddina, forse, e non solo perché è fatta d’arenaria, ma bellissima. Lei, Uta von Ballenstedt. O meglio la statua che la rappresenta, e che non è per niente detto che le somigli. L’Uta reale, di carne e ossa, infatti, era nata nell’anno 1000, e delle sue fattezze doveva essersi perso il ricordo nel 1249, quando il vescovo di Naumburg, una cittadina della Sassonia, inserì il suo nome, e quello di suo marito, nell’elenco dei principali benefattori laici della cattedrale: dodici fondatori che l’ecclesiastico volle far immortalare in altrettante grandi statue che, seguendo modelli francesi, furono collocate accanto ai supporti del coro occidentale dell’edificio sacro. 

Anche se ignoriamo quale fosse il suo aspetto, ad ogni modo, della vera Uta e della sua storia sappiamo qualcosa.  Non solo quando nacque, ma anche dove (nel castello di Ballenstedt, appunto, un’altra località della Sassonia) e da chi: suo padre era il conte Adalberto e sua madre era Hidda, a sua volta figlia di Odo I, margravio della Lusazia, la grande marca che segnava il confine orientale dell’Impero. Ebbe anche un fratello celebre; Esico di Ballenstedt, che sposando Matilda, sorella dell’Imperatrice Gisella, fondò la dinastia degli Ascanidi, che avrebbe poi governato su vasti territori tra mondo tedesco e slavo. In quanto ad Uta, le cronache dicono che si sposò assai tardi, quando aveva già ventisei anni. Un matrimonio per ragioni puramente politiche che la unì al vecchio Eccardo II, ormai quarantunenne ma destinato a diventare margravio di Meissen. Ancora oggi, questa cittadina sulle rive dell’Elba è dominata dal castello di Albrechtsburg. Le mura che vediamo, sono dovute a un rifacimento quattrocentesco, ma fu lì che Uta visse accanto ad Eccardo fino alla propria morte, avvenuta per una non meglio precisata epidemia nel 1046. Vicende che, a cominciare dai nomi dei loro protagonisti, sanno tanto di Medioevo? Certo. E questo sapore aumenta se  aggiungiamo che Uta, accusata di stregoneria con grave imbarazzo del pio Eccardo, a un certo punto del suo ventennio da margravia, rischiò anche di finire sul rogo.

Nonostante tutto, però, il Medioevo in cui visse non era già più quello dei secoli bui in cui la civiltà europea aveva rischiato di estinguersi. Malgrado pestilenze, guerre e carestie, infatti, la popolazione del continente era tornata ad aumentare. Il dissodamento di nuove terre e l’introduzione di nuove tecniche di coltivazione garantiva una produzione alimentare in genere sufficiente; anzi, tanto abbondante da liberare dal lavoro nei campi un numero sempre maggiore di europei. Uomini e donne che potevano dedicarsi ad altre attività e, soprattutto, tornavano a popolare le città che, nei secoli successivi alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, erano pressoché scomparse. Quello che usualmente chiamiamo Rinascimento, insomma, era ancora lontanissimo, ma, a cavallo dell’anno Mille la rinascita dell’Europa era già avviata. La dimostrazione più lampante che fosse così? Proprio l’inizio dei lavori di costruzione delle cattedrali: opere che trovavano la propria ragione d’essere solo in un contesto urbano e per la cui realizzazione implicava la possibilità di riunire, alloggiare e alimentare, tutta una schiera di artigiani specializzati; anzi, di maestri.

Maestri come quello cui dobbiamo la statua di Uta? Non ancora. I suoi progenitori, piuttosto, lungo quella linea di evoluzione economico-sociale e culturale, oltre che artistica, che nell’arco di due secoli avrebbe prodotto la civiltà, prima che l’uomo, in grado di realizzare una simile opera.  Uomo, di cui peraltro sappiamo pochissimo. Non ne conosciamo neppure il nome. La storia dell’Arte, come fa quando deve arrendersi davanti alla mancanza di documenti scritti, prende spunto da queste statue, il suo capolavoro, per indicarlo come il Maestro di Naumburg.  Per il resto, ci sono solo teorie e a volte contrastanti. Si pensa sia nato poco dopo il 1200, forse in Germania, ma più probabilmente nel Nord della Francia, dove si ritiene abbia appreso il mestiere.  Non ci sono prove certe, ma si crede fosse anche architetto e che a lui si debba l’intero progetto del coro occidentale. Era sicuramente aggiornatissimo; tanto da far pensare che debba aver lavorato in alcuni dei più importanti cantieri dell’età aurea del Gotico francese. Probabilmente fu attivo a Noyon,  Amiens, Reims e, forse, Chartes, negli anni a cavallo del 1225. Poco dopo, si ritiene abbia partecipato anche alla costruzione delle cattedrali di Strasburgo e Metz. Le prime opere che gli sono state attribuite con certezza, o quasi,  sono le statue del tramezzo (o jubé, come si preferisce dire) della cattedrale di Magonza, oggi ridotte in frammenti. Sempre opera sua, e forse subito precedente le statue di Naumburg,  è l’altorilievo con San Martino nell’atto di tagliare in due il proprio mantello (un vero capolavoro per pathos, vivacità ed equilibrio della composizione) ritrovato  negli anni 30 del Novecento nella chiesa parrocchiale di Bassenheim, presso Coblenza. Non ci sono prove, invece, se non di un legame indiretto,  di una partecipazione allo stesso clima culturale, di un suo intervento nella realizzazione della cattedrale di Bamberga, e, in particolare, della celebre statua equestre che ne orna il coro. Sicuro, o quasi, è invece il coinvolgimento della sua bottega, o di qualcuno che  era stato suo allievo, nelle sette grandi statue  della cattedrale di Meissen. Sono solo di  poco posteriori al ciclo di Naumburg, ma a quel punto il Maestro sarebbe potuto essersene già andato.

Una storia piena di lacune, ma che comunque non si può riassumere facendo del Maestro di Naumburg una specie di traduttore tedesco di mode francesi. Certo, è perfettamente francese (lo stesso dell’angelo dell’Annunciazione nella cattedrale di Reims, per esempio) il sorriso sul volto di un’altra delle statue dei “fondatori”: quella di Regelinda, moglie polacca di Ermanno I di Meissen. Vi è, però, nelle opere del nostro Maestro, qualcosa di nuovo rispetto agli esempi dell’Ile de France o della Piccardia. Basta tornare a Uta, per comprenderlo; distogliere gli occhi dal suo viso per osservare la sua postura, il suo mantello e, magari, quell’incredibile brano scultoreo che è la sua mano sinistra. Una mano perfetta, nella sua anatomia, come perfettamente realistico è ognuno dei particolari che formano l’opera. Intendiamoci, il ritorno alla realtà, è proprio di tutta l’arte gotica. La diffusione degli ordini mendicanti, con la loro attenzione all’umanità della figura di Cristo e della sua vicenda terrena, si unisce al bisogno di ricordare i Vangeli alle folle urbane che vivono all’ombra delle nuove cattedrali per spingere verso un maggior realismo dell’arte religiosa. Non solo. La vita dei nobili forse non era ancora quella, raffinatissima, che centocinquanta anni dopo, nella fase più tarda della cultura gotica, sarà miniata dai fratelli Limbourg, ma certo era qualcosa di più di un passaggio attraverso una valle di lacrime: meritava d’essere rappresentata, come meritavano d’essere  ricordate  le vicende di artigiani e mercanti che erano già quelli che Boccaccio avrebbe descritto nelle sue novelle. A quest’attenzione al mondo, alla realtà,  nel Gotico delle grandi cattedrali francesi, si accompagna però sempre una notevole idealizzazione: le sue figure si allungano, e spesso assumono una posizione “a esse” considerata particolarmente elegante, mentre i panneggi dei loro abiti sono sovente insistiti, (a pieghe bagnate, si è soliti definirli) e rispondono più a esigenze decorative o “narrative” che di resa naturalistica.

Maestro di Naumburg, Eccardo II di Meissen e Uta von Ballenstedt.  (ca. 1250)
Statue a grandezza naturale in arenaria dipinta. Coro occidentale della cattedrale.
Naumburg, Germania.

Idealizzazioni, stilizzazioni, che il Maestro di Naumburg non fa proprie. Il suo è un realismo che fa ben pochi compromessi; quello di un artista che mette in posa i propri modelli, ma poi li ritrae come sono. Per gli uomini e le donne che sono.  Basta guardare Eccardo (o Eckehard), che se ne sta lì accanto alla moglie: reggerà uno spadone, e avrà uno scudo appeso al fianco, ma con quel suo volto rotondo, con quel suo doppio mento, tutto appare fuorché guerresco. Un realismo che si sofferma sui particolari, come l’anello che Uta porta al dito o la corona che le cinge il capo,  e che doveva addirittura essere iper-realismo quando le statue  conservavano, in tutta la sua vivezza, la colorazione di cui oggi restano solo tracce (ammesso che si tratti di quella originale). Quest’attenzione ai dettagli, e questa capacità di riprodurli, non sono, tuttavia, quelle di un mero virtuoso; di un orefice della pietra. Il Maestro di Naumburg è uno scultore, e come tale pensa le proprie opere, prima di tutto, come combinazioni di volumi. Osserviamo il mantello di Uta. Non  sono inutilmente decorative le pieghe con cui cade; sono quelle, perfettamente naturali, per nulla “bagnate” o “gotiche”, che ci si può aspettare  formi un tessuto che s’intuisce pesante. Osserviamo ora il braccio con cui Uta  si serra quel mantello. Quanto si è scritto, su questo gesto. Certamente riprende quello del braccio che Eccardo tiene all’altezza della propria cintola. Forse simboleggia davvero la modestia di Uta; il suo essere moglie fedele e devota. Ancor più certamente è un gesto che ha precise ragioni compositive: necessario per rompere  il monotono ritmo verticale di quelle pieghe; fondamentale per dare al mantello un volume più interessante.  E’ un braccio che “deve” stare così, come per simili motivi “da scultore”, se mi consentite un paragone tanto distante da Uta, devono starsene conserte, anche loro coperte da un mantello, le braccia del Balzac scolpito da Rodin.

Attenzione all’uomo e all’umano, voglia d’indagare la realtà o perlomeno il suo aspetto, capacità di concepire la propria opera come composizione tridimensionale, a tutto tondo, e conoscenza dell’anatomia:  ma allora, viene da dirsi, il Maestro di Naumburg è già uno scultore rinascimentale. No, solo quasi. E questo anche facendo nostre le teorie di Konrad Burdach che, nel suo Dal Medioevo alla Riforma, vede nel Rinascimento la prosecuzione naturale e senza cesure dell’età gotica. Mancano, nel nostro Maestro, la tensione “ideale” e la ricerca umanistica, che saranno proprie dei rinascimentali. Gli mancano anche perché non ha modo di conoscere, se non di seconda o terza mano, magari attraverso l’opera di scultori provenienti dal Midi, gli esempi dell’arte classica con cui dovrebbe confrontarsi. E’ quello che invece fa qualcuno, circa un quarto di secolo più giovane di lui, che ha la fortuna di cominciare a lavorare un migliaio di chilometri a sud della Sassonia, in quell'Italia Meridionale cui era allora dato il generico nome di  Apulia. Qualcuno che ha modo di vedere antichità greche e romane e, allo stesso tempo, di imparare il mestiere dai colleghi del Maestro di Naumburg chiamati laggiù dalla sensibilità illuminata di Federico II, non a caso tra i principali finanziatori della cattedrale di Bamberga.  Parlo di Nicola Pisano. Un genio, certo, ma che pure ha avuto dei padri e tra loro anche alcuni d’Oltralpe. Piccardi, borgognoni, renani, sassoni o svevi?  Semplicemente, preferisco pensare, altri europei come lui. E che come lui, pietra dopo pietra,  idea dopo idea, stavano costruendo l’Europa.

P.S. Pare che Walt Disney, nel 1937, abbia dato il volto di Uta alla crudelissima regina Grimilde, nel film Biancaneve e i sette nani. Ne sono indignato.

P.S. 2 I nazisti fecero di Uta un simbolo della bellezza e della dignità della donna germanica. Sono sicuro, conoscendola, che se ne sia indignata: con certa plebaglia non avrebbe mai voluto avere a che fare.

P.S. 3 Gli stessi nazisti fecero di Regelinda il simbolo della donna slava, troppo poco intelligente per fare altro che sorridere. Detto dell’origine francese di quella sua espressione, resta che lei ha continuato a sorridere: di compassione verso chi sapeva tanto poco di storia dell’Arte.

2 commenti:

  1. Salve, sto scrivendo la tesi su Uta e vorrei sapere se può gentilmente dirmi le fonti esatte delle informazioni che ha esposto. Grazie :)

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    1. Mi dispiace doverti deludere, ma dopo tanto tempo proprio non ricordo quali testi, in particolare, abbia consultato. Ho trovato le notizie qua e là nei vari manuali che ho in casa; gli stessi a cui credo tu possa avere facilmente accesso. Non conosco, invece, e anche se ci saranno, delle monografie su Uta. Auguri per la tesi e scusa ancora se ho potuto essrti così poco di aiuto.

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